Compulsion: La Recensione del Libro



Autore: Meyer Levin

Compulsion è un romanzo monumentale, in tutti i sensi, uscito per la prima volta nel 1956 (edito Adelphi). Nonostante sia poco conosciuto è un libro fondamentale soprattutto perché capostipite di un nuovo genere letterario: il romanzo-verità, in questo caso su un caso di cronaca (ora lo chiameremmo romanzo true-crime).


In ognuno di noi alberga una strana fede nel castigo. Se una persona viene colpita dalla sfortuna, di certo dovrà aver commesso qualche peccato. E così la vittima diventa immediatamente colpevole.


Meyer Levin prima di essere scrittore era giornalista e si trovò, poco più che diciottenne, a fare la cronaca di quello che fu ribattezzato l’omicidio del secolo, l’omicidio di Bobby Franks avvenuto a Chicago nel 1924.

Parliamo dei fatti riducendoli all’osso: Nathan Leopold e Richard Loeb sono giovani rampolli di famiglie dell’alta borghesia di Chiacago, hanno poco più di diciotto anni. Decidono di rapire, chiedere un riscatto ed uccidere il giovane Bobby Franks, quattordici anni, anche lui di famiglia alto-borghese.

La storia sembra semplice e senza complicazioni, allora che cosa rese la morte del piccolo Franks l’omicidio più importante di quegli anni? Cosa c’era di speciale in quella morte? La completa e, all’apparenza, assoluta mancanza di un movente valido.


“Per essere al di sopra e al di là della legge, l’autore non deve essere spinto dal bisogno né da altri moventi emotivi tipicamente umani quali la lussuria, l’odio o l’avidità. In tal caso il delitto è puro atto, il gesto di un essere assolutamente libero, di un superuomo”


Levin si intreccia con la storia degli assassini per diversi motivi: hanno la stessa età, la stessa estrazione sociale, sono tutti ragazzi prodigio e soprattutto ha una conoscenza diretta con Loeb. Entra nella storia prima con gli occhi del giovane cronista nel 1924, poi come scrittore, per tirare le somme dell’omicidio e del suo processo qualche anno più tardi, nel 1956.

Chiunque apra in qualsiasi punto il libro si accorgerà che qualcosa nei nomi dei protagonisti non torna. Levin ha volutamente cambiato i nomi dei personaggi per cui Leopold diventa Judd Steiner, Loeb diventa Artie Strauss e Sid Silver diventa l’alter ego dello scrittore, che scrive in prima persona della storia e la porta al lettore.

Il racconto che fa Levin è agghiacciante fin dalle prime battute, entrare nella psicologia di Loeb e Leopold è un viaggio senza ritorno dentro la crudeltà umana.


Due ragazzi di diciotto anni, con un quoziente intellettivo oltre la media, una laurea già in tasca, spinti all’estremo da una concezione distorta della vita e della natura. È nel movente del superomismo che nascondono le loro nefandezze, ma forse le cose non stanno proprio come vogliono far vedere.

Sappiamo sicuramente che Leopold (Judd) è primariamente spinto all’azione dall’amore viscerale che prova per l’amico, di cui si immagina lo schiavo prediletto; mentre Loeb (Artie) è, ad una prima lettura, il classico narcisista istrionico spregiudicato, che sicuramente nella sua giovane vita aveva compiuto altri delitti, anche se non si sa di che tipo.

Quello che unisce i due protagonisti è un rapporto estremamente tossico, un amore malato dove i pensieri estremi di uno diventano le azioni dell’altro, un fuoco che alimenta altro fuoco fino ad arrivare all’esplosione finale. Folie à duex fu la diagnosi dei due giovani durante il processo.


Proprio allora, in quella notte di novembre, Judd aveva avuto la sensazione che lui e Artie costituissero un tutt’uno separato dal resto del mondo.


Due ragazzi con una intelligenza fuori scala ma che nella loro assoluta spavalderia e arroganza compirono degli errori così grossolani da farli scoprire. Un ragazzino, della loro estrazione sociale, che Loeb (Artie) conosceva bene, che decidono di rapire e uccidere (il riscatto era solo un divertissement perché i soldi sono comunque soldi anche se di tuo ne hai già tanti) e nascondere nel luogo dove Leopold (Judd) si recava per fare birdwatching e dove perse i suoi occhiali da lettura, occhiali talmente particolari da renderlo identificabile. Apparentemente la mente dietro il fatto è Loeb (Artie) grazie anche alla sua grandissima passione per le riviste poliziesche. Non riuscirono nemmeno a mettersi d’accordo sul’alibi da dare se fosse mai stati scoperti.


Se è vero che era stato Judd a seminare indizi mentre compivano il delitto, fu Artie a sfidare ripetutamente il destino, a impicciarsi delle indagini, sgomitando fra noi giornalisti e anche fra poliziotti come un bambino desideroso di provocare e di trasgredire.


Una grandissima spocchia e senso di superiorità, unito ad una completa e totale mancanza di una qualsiasi emozione umana, che più che mai mi hanno ricordato Ted Bundy e il suo difendersi da solo in tribunale. Un delirio di onnipotenza che li faceva sentire più grandi di quanto fossero.


Per cominciare, domandammo loro se provavano rimorso. Artie disse che era dispiaciuto, ma solo perché l’avventura non aveva avuto successo. Judd disse: << Ho esaminato le mie reazioni e non posso affermare di aver provato un sentimento di rimorso.>>.


Più che mai importanti oltre i protagonisti sono soprattutto il coro di persone, amici e colleghi dei ragazzi, che entrano nella storia e il ruolo dei giornali e dei loro titoli. Si moltiplicato le ragazze che affermano di essere state amanti di Loeb (Artie), noto donnaiolo, che lo seguiranno con lo sguardo fino al processo (le groupie dei serial killer come le abbiamo viste con in altri processi).

È un coro di giovani che non credono a quello che Loeb e Leopold possono aver fatto, ma che andando avanti con la storia si convinceranno della veridicità delle loro azioni, perché tutti sapevano che in quella amicizia così stretta e provata qualcosa non andava.


Dopo la confessione Judd si sentì più che altro fiero, come dopo un compito in classe particolarmente riuscito. In effetti egli pareva di vedere intorno a sé lo stesso ammirato stupore manifestato da un professore quando uno studente dimostra una straordinaria padronanza di un certo argomento.


Nella prima parte del libro seguiamo il nostro Sid Silver che cerca di indagare, di scoprire, che viene aiutato da Artie nelle indagini, che comincia a capire che nel comportamento dell’amico qualcosa non torna e qui il lavoro di Levin è esemplare, tutto è documentato e documentabile. Le ricostruzioni nel libro vengono dalle parole dirette dei protagonisti, durante le tante ore di colloquio con psichiatri e medici, oppure da una ricostruzione attraverso queste perizie.

È questa la grande rivoluzione di Compulsion: è un romanzo, si legge come un romanzo, sembra un giallo, ma è la verità. Tutto è vero. Molto prima di Capote e Mailer venne Levin. L’autore che entra come voce narrante nella storia


È però il secondo capitolo del libro, il processo, ad essere quello più importante del romanzo. Quello che si apre per l’omicidio del secolo è il processo del secolo. Non solo un processo contro i due ragazzi, ma un vero e proprio processo contro la pena di morte.

Il problema processuale nasce dal fatto che la difesa, guidata dal grandissimo avvocato Clarence Darrow (Jonathan Wilk nel libro), voleva assolutamente evitare di andare davanti ad una giuria popolare perché la storia era troppo nota a tutti, troppe le parole vere o presunte scritte sui giornali, e giuria popolare era uguale a pena di morte certa. Per fare questo i ragazzi dovevano dichiararsi colpevoli ma non si doveva per nessun motivo dichiarare l’infermità mentale, in questo caso il processo si sarebbe andato davanti ad una giuria, cosa a cui aspirava fortemente l’accusa.

Per la prima volta in un processo entrano i medici: psichiatri, psicologi, endocrinologi che scrivono le loro perizie, forse le prime perizie che entrano in un processo.


Credete, impiccandoli, di eliminare l’odio e i disagi del mondo? Si potrà, di quando in quando, curare l’odio con l’amore e la comprensione, ma affidandosi alla crudeltà e all’odio si può soltanto gettare altra benzina sul fuoco.


Quella di Wilk è una crociata contro la pena di morte, la sua crociata personale che porterà avanti con tutte le sue forze per tutta la sua vita. E qui vinse. Nessuna pena di morte per Loeb e Leopold, salvati dal giudice solo per la loro giovane età, ma il carcere a vita senza possibilità di uscita. Cosa che non si realizzerà: Loeb morì in carcere pochi anni dopo esservi entrato, forse per aver dato attenzioni sessuali non richieste al proprio compagno di cella, mentre Leopold uscì dopo 33 anni di carcere.

L’ossessione per l’omicidio perfetto, al di sopra della legge, proprio come era nelle fantasie di Leopold e Loeb è terreno fertile per innumerevoli film, libri e serie tv.

Da citare assolutamente: Nodo Alla Gola di Hitchcock del 1948 (quindi precedente all’uscita del libro), trae diretta ispirazione dall’omicidio del piccolo Frank.


E Frenesia Del Delitto di Fleisher del 1958 che invece è la trasposizione cinematografica del libro di Levin (con Orson Wells nei panni dell’avvocato della difesa Jonathan Wilk).


Ma la conclusione sconvolgente a cui arriva Silver e a cui arriva il lettore è che Leopold, quello che sembrava il più passivo della coppia omicida, quello trasportato solo dall’amore per l’amico, è in realtà la mente più sadica e psicopatica dei due. Una follia a due tra pari grado, che forse presi singolarmente non avrebbero mai fatto niente di così tremendo.


E all’improvviso fui sopraffatto da un altro pensiero, che modificò l’idea che mi ero fatto del delitto. <<Judd, allora, non era semplicemente il complice di Artie. Non partecipò al delitto solo perchè innamorato di Artie. Doveva compiere quel gesto perché spinto, non meno di Artie, da una personale COMPULSIONE.>>
 
Qui il libro

Buona lettura,



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