La Casa in Collina: La Recensione del Libro



Autore: Cesare Pavese


La Casa in Collina è un romanzo pubblicato nel 1948 all'interno del volume "Prima che il gallo canti".

Il romanzo è ambientato negli anni della seconda guerra mondiale ed in particolare nel periodo precedente e successivo all'armistizio del 1943.

I temi affrontati sono quelli della guerra, della partecipazione civile, della scelta e del senso di colpa.

È la storia di Corrado, un professore di scienze che insegna a Torino, ma si reca ogni sera in collina per sfuggire ai bombardamenti. Qui alloggia in una stanza in affitto presso una villa governata da due signore, Elvira e la madre anziana, e trascorre il suo tempo passeggiando insieme al loro cane Belbo.

Già dalle prime pagine del libro capiamo che Corrado è un uomo solitario, intriso di malinconia, trasferitosi in collina ancor prima dello scoppio della guerra, per soddisfare il suo bisogno di solitudine. Sembra anzi che la guerra non lo sconvolga affatto e che, al contrario, ne tragga giovamento per vivere appieno la sua condizione di isolamento;


"La guerra mi tolse soltanto l'estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l'ultimo confidente sincero che mi restava".


E' in questo stato d'animo che una sera Corrado, in compagnia del fidato Belbo, insegue un canto e si imbatte in una curiosa compagnia riunita presso un'osteria. Tra questo gruppo di persone Corrado riconosce una voce familiare, quella di Cate, una vecchia fiamma dei tempi in cui era uno studente universitario.

Il sentimento che prova nel rivederla è contrastante, da una parte vi è l'entusiasmo di ritrovare una donna con cui ha condiviso un momento bello e spensierato della sua vita, dall'altro il rimorso per non averla saputa amare; infatti con Cate non si comportò bene e questo lo induce a temere che lei serbi rancore nei suoi confronti.

Corrado continua a frequentare l'osteria e i suoi ospiti quasi sospinto da un desiderio di riparazione nei confronti di Cate e di suo figlio Dino (diminutivo di Corrado) che sospetta essere suo figlio, e con il quale comincia ad intessere un rapporto quasi paterno.

Con il passare dei giorni il rapporto tra i due si fa sempre più stretto e Corrado invita più volte Cate a confessargli la verità su Dino, palesandole la sua intenzione di volerla sposare, nel caso in cui il ragazzo fosse suo figlio. Ma Cate non è più la ragazza sprovveduta e ingenua di un tempo, non vuole che Corrado si impegni con lei solo per senso del dovere, ed infine ha compreso la cosa più triste; il sentimento di solitudine e di estraneità di Corrado è troppo forte per consentirgli di voler davvero bene a qualcuno.


Corrado sembra subire ciò che accade senza una reale partecipazione; il suo essere intellettuale e uomo erudito fa sì che egli osservi e analizzi i fatti con lucida superiorità, tuttavia senza mai prendere una posizione netta e chiara. Così, mentre gli amici di Cate, all'osteria, programmano di unirsi alla resistenza e infine ne diventano parte attiva nascondendo armi, egli si interroga e tormenta nell'animo senza riuscire mai a tradurre il suo dramma interiore in azione.

Ma di lì a poco all'osteria arrivano i tedeschi e portano via tutti, Cate compresa; solo Dino riesce a scappare e a trovare rifugio con Corrado, scampato anch'esso per un pelo ad un agguato alla villa dove alloggia, presso il collegio di Chieri.

Corrado cerca di riscattare la propria esistenza che sente inutile e indegna, dedicandosi al ragazzo, ma le sue speranze si rivelano vane poiché Dino, dopo qualche giorno, fugge dal collegio per ingrossare le fila della lotta partigiana.

Incapace di seguire Dino e prendere parte alla resistenza, non rimane più nulla a Corrado se non l'affetto della sua famiglia d'origine; così decide di incamminarsi verso le Langhe, la terra dove vivono i suoi genitori e della sua infanzia.

Durante il percorso Corrado incontra tanti cadaveri, sconosciuti e repubblichini, e una volta arrivato a casa si domanda quale sia il senso di tutte queste vite spezzate.

Qui Pavese raggiunge, a mio avviso, il momento più alto delle sue riflessioni e ci lascia con un passo tra i più significativi di tutta la sua opera.


"Guardare queste morti è umiliante ...ci si sente umiliati perché si capisce -si tocca con gli occhi- che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione".


Infine si chiede se la guerra possa veramente finire:


"Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? perché sono morti?"

"Io non saprei cosa rispondere...né mi pare lo sappiano gli altri. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero".


Buona lettura,



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